Per adesso di post off-topic ne ho prodotto solo uno, quello contenente la mia opinione su Moby Dick di Melville. Ma come ho anticipato qui questo blog, benché incentrato sul resoconto delle imprese che affronterò man mano, deve diventare anche uno spazio che parli di me e dei miei interessi (cinema e libri su tutti, ma non disdegno neppure la musica, l’arte, il teatro e altre cose che, spero, scoprirete).

E, quindi, eccovi la mia opinione sul film che ho avuto modo di vedere ieri sera al cinema all’aperto  (poi vi racconterò anche cosa significa per me il cinema e perché, quando posso scegliere, prediligo sempre la visione in sala rispetto a quella domestica)

Poetry 

[Poetry, Corea del Sud 2010, Drammatico, durata 139′]   Regia di Chang-dong Lee
Con Jeong-hie Yun, Nae-sang Ahn, Da-wit Lee, Hira Kim, Yong-taek Kim

Attenzione! Contiene spoiler

Controcorrente con le opinioni dei più a me Poetry non è piaciuto. Lo dico subito a scanso di equivoci. Eppure amo il cinema sud coreano (ed orientale, in genere). Ho molto apprezzato l’opera più nota di questo regista (l’ottimo e disturbante Oasis). Ho ammirato la toccante interpretazione della protagonista (una Yun Junghee convincente e tenera). Allora cosa c’è che non va? Non so se sono in grado di definirlo esattamente. Nel film, però, c’è qualcosa che non funziona. Ci sono bellissimi spunti ma sono del tutto irrisolti. Prendiamo ad esempio l’espediente narrativo delle lezioni di poesia. La protagonista, seguendo le lezioni di poesia per reimparare a trovare le parole (colpita da Alzheimer allo stadio iniziale stenta, spesso, a dare i nomi agli oggetti quotidiani), comincia ad osservare le cose in modo diverso; impara a vederle veramente quando prima si era limitata solamente a guardarle (bellissima la scena in cui, seduta sotto un grande albero, ne osserva le fronde che si stagliano nel cielo e, rispondendo alla domanda di una vicina di casa, afferma di ascoltare cosa l’albero ha da dirle). Ma tutto questo non è mai davvero approfondito. Rimane quasi sempre in superficie ed è un peccato perché resta lo spunto più bello di tutto il film. Che dire poi degli altri due argomenti scottanti affrontati dalla pellicola (mi riferisco alla violenza di branco su un’adolescente fino a spingerla al suicidio e al sesso senile, argomento delicato che avrebbe meritato ben altra attenzione)? Anche di questi si parla ma senza vera partecipazione. Senza orrore nel primo caso. Senza amore nel secondo. E anche questo è un peccato mortale perché ci sarebbero stati tanti modi di affrontare questi temi e di suscitare non banali riflessioni nello spettatore.

Ecco, l’impressione è che Lee Chang-dong abbia voluto mettere un po’ troppa carne al fuoco e non sia riuscito a focalizzarsi veramente su nessuno dei temi trattati. Probabilmente da questi argomenti avrebbe potuto trarre tre film diversi e molto più efficaci di questa pellicola personale ma priva della necessaria intensità.