Oggi mi sono imbattuta in questo brano. So che è lungo ma se avrete la pazienza di leggerlo la riflessione che ne scaturisce è interessante. Non riporto l’autore per non condizionare ben sapendo che in molti (non io!) lo odiano.
Scusate se uso ancora la musica classica, ma aiuta a capire: pensate come, in quella musica, il fatto che essa sia, in qualche modo, difficile è la garanzia del suo essere viatico per qualche posto nobile, elevato. Vi ricordate la Nona [n.d.a. di Beethoven], vero confine di ingresso alla civiltà di monsieur Bertin? Be’, quando la ascoltarono, i critici, per la prima volta, dico la prima, iniziarono a dire che forse, per capirla bene, si sarebbe dovuto risentirla. Adesso ci sembra normale, ma per i tempi era una bizzarria assoluta. A un ascoltatore di Vivaldi l’idea di risentire Le quattro stagioni per capirle doveva sembrare come la pretesa di rivedere dei fuochi d’artificio per capire se erano stati belli. Ma la Nona pretendeva questo: il gesto della mente che ritorna sul suo oggetto di studio e fatica, e accumula nozioni, e scende in profondità, e alla fine comprende. Ancora l’altro ieri, i nostri nonni faticavano dietro a Wagner, tornando ad ascoltarlo per innumerevoli volte, fino a quando non riuscivano a stare svegli fino alla fine, e a capire: e quindi, finalmente, a godere. Bisogna comprendere che questo genere di tour de force piaceva a monsieur Bertin, gli era assolutamente congeniale, e questo è facilmente spiegabile: la volontà e l’applicazione erano proprio le sue armi migliori, e, se vogliamo, erano ciò che faceva difetto a un’aristocrazia rammollita e stanca: se accedere al senso più nobile delle cose era una faccenda di determinazione, allora accedere al senso delle cose diventava quasi un privilegio riservato alla borghesia. Perfetto.
L’applicazione su larga scala – e in un certo modo la degenerazione – di questo principio (la fatica come lasciapassare per il senso più alto delle cose), ha prodotto il paesaggio in cui ci troviamo oggi. La mappa che noi tramandiamo dei luoghi in cui è depositato il senso, è una collezione di giacimenti sotterranei raggiungibili solo con chilometri di cunicoli faticosi e selettivi. Il semplice gesto originario del fermarsi a studiare con attenzione, si è ormai affinato a vera e propria disciplina, impervia e articolatissima. Nel 1824 potevi ancora pensare che per capire la Nona dovessi sentirla un’altra volta. Ma oggi? Avete in mente le ore di studio e di ascolto necessarie per creare quello che Adorno chiamava un “ascoltatore avveduto”, cioè l’unico in grado di apprezzare veramente il capolavoro? E avete in mente con quanta costanza si sia demonizzato qualsiasi altro modo di accostarsi al sommo capolavoro, magari cercandovi con semplicità il crepitio di una vita immediatamente percepibile, e dimenticando il resto? Come insegna la musica classica, senza fatica non c’è premio, e senza profondità non c’è anima.
Andrebbe anche bene così, ma il fatto è che ormai la sproporzione fra il livello di profondità da attingere e la quantità di senso raggiungibile è diventata clamorosamente assurda. Se vogliamo, la mutazione barbara scocca nell’istante di lucidità in cui qualcuno si è accorto di questo: se effettivamente scelgo di dedicare tutto il tempo necessario a scendere fino al cuore della Nona, è difficile che mi resti del tempo per qualsiasi altra cosa: e, per quanto la Nona sia un giacimento immenso di senso, da sola non ne produce la quantità sufficiente alla sopravvivenza dell’individuo. E’ il paradosso che possiamo incontrare in molti studi accademici: il massimo della concentrazione su uno spigolo del mondo ottiene di chiarirlo, ma ritagliandolo via da tutto il resto: in definitiva, un risultato mediocre (che te ne fai di aver capito la Nona, se non vai al cinema e non sai cosa sono i videogames?). E’ il paradosso che denunciano gli sguardi smarriti dei ragazzi, a scuola: hanno bisogno di senso, di semplice senso della vita, e sono anche disposti ad ammettere che Dante, per dire, glielo fornirebbe: ma se il cammino da fare è così lungo, e così faticoso, e così poco congeniale alle loro abilità, chi gli assicura che non moriranno per strada, senza mai arrivare alla meta, vittime di una presunzione che è nostra, non loro? Perché non dovrebbero cercarsi un sistema per trovare l’ossigeno prima e in modo a loro più congeniale?
Guardate, non è un problema di fatica, di paura della fatica, di rammollimento. Ve lo ripeto: per monsieur Bertin quella fatica era un piacere. Aveva bisogno di sentirsi stanco, quel tour de force lo rendeva grande, sicuro di sé. Ma chi ha detto che debba essere lo stesso per noi? E poi, sentire la Nona un paio di volte o Wagner una dozzina, è una cosa: leggere Adorno per andare al concerto, un’altra. Questa fatica è diventata un totem e una micidiale forca caudina da cui è necessario passare. Ma perché? Non va smarrita, in questa liturgia borghese, la semplice intuizione originaria per cui l’accesso al cuore delle cose era una questione di piacere, di intensità di vita, di emozione? Non sarebbe lecito pretendere che fosse di nuovo così? Non sarebbe giusto rivendicare un tipo di fatica che fosse dilettevole, per noi, come quella fatica era dilettevole per monsieur Bertin?
Così i barbari si sono inventati l’uomo orizzontale. Gli dev’essere venuta in mente un’idea del genere: ma se io impiegassi tutto quel tempo, quell’intelligenza, quell’applicazione a viaggiare in superficie, sulla pelle del mondo, invece di dannarmi a scendere in profondità? Non sarà che il senso custodito dalla Nona non diventerebbe visibile nel lasciarlo libero di vagare nel sistema sanguigno del sapere? Non è possibile che quanto di vivo c’è là dentro sia ciò che è in grado di viaggiare orizzontalmente, in superficie, e non ciò che, immobile, giace in profondità? Avevano davanti il modello del borghese colto, chino sul libro, nella penombra di un salotto con le finestre chiuse e le pareti imbottite: l’hanno sostituito, istintivamente, con il surfer.
Ecco, era proprio su questo che stavo riflettendo ultimamente. E come sempre le cose sono incredibilmente concatenate. Lo stavo pensando prima di leggerlo, prima di trovarmelo davanti descritto molto meglio di come avrei saputo fare io. Alla base di questo ragionamento c’è un assunto fondamentale: il fatale, socratico, inevitabile so di non sapere. Perché questo è il concetto basilare che connatura ogni processo di crescita. Perché solo la consapevolezza della propria ignoranza può spingerci a cercare, a studiare, ad essere curiosi, ad approfondire. Senza questa pulsione resteremmo nell’immobilismo compiaciuto della nostra ignoranza. Naturalmente senza esserne coscienti.
Ma torniamo alla riflessione. Nel brano che ho riportato (a proposito, l’amanuense, come sempre, ringrazia) si dice una cosa fondamentale: si parla del piacere dell’apprendimento. Ed è un fattore essenziale. Per anni, a scuola, ci è stato talmente inculcato il concetto che lo studio è un nostro dovere che molti di noi hanno finito per perdere di vista che l’acquisizione del sapere, la cultura, è, innanzitutto, un piacere. Se non è un piacere non ha nessun senso. Resta solo un vuoto involucro di erudizione che non ci serve a nulla, che non ci fa veramente crescere.
Ma quando ci rendiamo conto che scoprire cose nuove, apprendere, sapere, imparare sono tutti mezzi per farci provare, in qualche modo, piacere allora il gioco è fatto. E a questo punto non conta nulla se questo piacere lo si provi studiando per tutta la vita la Nona di Beethoven o spaziando dal cinema ai videogiochi. L’importante è che quello che facciamo ci faccia divertire aprendoci la mente. Poi ognuno si diverte a modo suo 😉
Graditissimi l’autore (che non rivelo), il brano scelto e l’idea.
Se ci lasciamo muovere dalla curiosità verso tutto ciò che è fuori da noi non possiamo che uscirne migliorati.
Viene tutto da li ( prendete fiato perchè un punto manco a pagarlo)
Noi dunque la chiamiamo ancora anima, o la inseguiamo girando attorno al termine spiritualità, e quel che vogliamo tramandare è l’idea che l’uomo sia capace di una tensione che lo spinge al di là della superficie del mondo e di se stesso, in un terreno in cui non è ancora dispiegata la totale potenza divina, ma semplicemente repira il senso profondo e laico delle cose, con la naturalezza per cui cantano gli uccelli o scorrono i fiumi, secondo un disegno che forse proviene davvero da una bontà superiore, ma più probabilmente sgorga dalla grandezza dell’animo umano, che con pazienza, fatica, intelligenza e gusto assolve per così dire al compito nobile di una prima creazione, che rimarrà l’unica, per i laici, e sarà invece grembo dell’incontro finale con la rivelazione, per i religiosi.
Perchè non citare l’autore?
Certo, i “nuovi barbari” sono tra noi, siamo noi. È poi il piacere della conoscenza può introdursi nella vita ad ogni livello, speriamo solo che chi ama i videogiochi, prima o poi faccia un tentativo di ascolto della Nona!
è vero il piacere di sapere,il dovere di formarsi,per me vanno di paro passo.Non possono esistere senza che vi sia anche l’altro.
L’ascoltatore,lo spettatore,il lettore,sono soggetti attivi che devono fare proprie
le cose che leggono,vedono,ascoltano.
Ora si fabbrica prodotti per la catena montaggio del consumo massificato e di becero e vuoto intrattenimento. Oggi dobbiamo riprendere il gusto e il piacere di conoscere e anche il sano divertimento che sta alla base dell’apprendere.
Certo che possiamo citarlo l’autore dato che, evidentemente, era fin troppo facile da riconoscere 😉 Il brano è di Baricco tratto da I barbari, saggio sul concetto di mutazione pubblicato a puntate su Repubblica e poi in volume per Fandango. Non l’ho citato non per nascondere qualcosa ma solo perché molti a sentire il nome di Baricco storcono la bocca e, magari, neppure avrebbero letto il brano che, secondo me, merita.
@lois: sono fermamente convinta che molti di quelli che amano i videogiochi ascoltino anche la Nona. Non tutti, certo, ma molti sì. Perché sono fermamente convinta che lo snobismo culturale appartenga solo ad una piccola parte di quelli che chiamiamo intellettuali (vecchi dinosauri, come piace chiamarli a me cit.) mentre la vera cultura, quella viva, dinamica, coraggiosa è molto più diffusa di quanto vogliono farci credere.
Avevo capito che era di Baricco, ho storto il naso e ho letto tutto il brano, se non altro per la fatica che hai fatto a copiarlo manualmente.
Io credo che il buon Baricco però, come suo solito, ragioni per schematismi ed estremizzi tutti i concetti. Non esistono solo Adorno e il surfer (come lo chiama lui), ma tantissime sfumature con cui avvicinarsi al marasma culturale in cui viviamo.
Il problema è chi e che cosa stabilisce cos’è cultura e cosa non lo è. Per esempio, esistono videogiochi che hanno lo spessore di grandi romanzi, però non saranno mai considerati una forma d’arte. Perché? per la parola gioco nella definizione?
E comunque, io non credo che esista una fruizione (odio questa parola, ma sono di fretta, perdonami) del tutto emotiva ed esclusivamente piacevole di nessun prodotto. Penso che ci voglia sempre un certo impegno, una certa concentrazione. Altrimenti sì, si resta in superficie e, per quando Baricco voglia farci credere che non c’è niente di male, non riesco proprio a essere d’accordo.
Aspettavo giusto al varco una detrattrice di Baricco! No, scherzo, naturalmente. E’ evidente che il concetto che esprime nel brano è semplificato ma, in realtà, secondo me afferma proprio quello che dici tu. Chi lo stabilisce che determinate cose, tipo la Nona per tornare al brano citato, siano cultura e altre, tipo i videogiochi, non lo siano? Secondo me, parafrasando una famosa frase, la cultura è negli occhi di chi guarda perché tutto ciò che può essere studiato, analizzato, interpretato con degli strumenti cognitivi che ne scalzino l’apparente banalità può diventare cultura. Di conseguenza anche i videogiochi o C’è posta per te della De Filippi (sento già gli sguardi d’odio dietro la schiena per questa affermazione!). L’osservazione attenta del mondo che ci circonda può trasformarsi in cultura se riusciamo a farla e ad esprimerla attraverso l’intelligenza della quale siamo dotati.
Sono d’accordo anche sul fatto che ci vuole impegno e studio per comprendere la profondità delle cose e non fermarsi all’apparenza ma chi lo dice che questo studio non debba comportare più piacere che fatica? O che la fatica non faccia parte del piacere?
E, infine (poi smetto altrimenti diventa un trattato!), non credo che il termine superficie nell’accezione con cui lo usa Baricco significhi in nessun modo superficialità. O, per lo meno, io non lo interpreto così. Io lo interpreto come la capacità di fare collegamenti tra le cose, di spaziare con la mente, di non chiudersi nei confini istituzionali. Un po’ quello che dici tu quando parli dei videogiochi che hanno lo spessore dei grandi romanzi. Un po’ come quando parli dei film horror 😉
Però, vedi, questo puntare tutto, che è tipico di Baricco, sull’ emotività e sulla ricezione inconsapevole, è una cosa che mi ha sempre disturbato, soprattutto da parte di uno degli autori più costruiti sulla faccia della terra.
A me sembra frutto di un finto romanticismo atto ad accaparrare le simpatie del pubblico. Ma forse sono maliziosa io.
E anche la distinzione tra atteggiamento borghese (chino sui libri) e antiborghese (che surfa sulla cultura e prende quello che capita) è abbastanza fastidiosa.
E’ che io, sotto sotto, sono bacchettona nell’ anima 😀
Sono d’accordissimo con quello che hai detto, “la cultura è negli occhi di chi guarda”. E sempre per citarti, alzi la mano chi di noi non ha mai guardato la De Filippi o il grande fratello con quel piglio da antropologo di professione, con la scusa di analizzare le dinamiche sociali. Salvo poi scoprire che l’unica dinamica soggiacente è quella dello share finalizzato al soldo, ovvero la famosissima acqua calda.
Penso che passare da Adorno al surfer possa darci proprio la possibilità di capire dove siamo noi tra i due estremi.
Perché poi dobbiamo affidarci a qualcosa di esterno che definisca cosa è la cultura? Approfittiamo invece di quanto sia facile accedere a tanti contenuti diversi e facciamo la fatica di scegliere criticamente. Vale per i videogiochi (te lo dico da videogiocatore appassionato, che si è fatto conquistare da splendide storie e dalla possibilità di viverle in prima persona comandando un personaggio sullo schermo) come per la Nona e per un buon libro.
Sono d’accordo con te: c’è sempre bisogno di un minimio di impegno nella “fruizione”, per tenere sveglio il nostro spirito critico. Un brutto libro o un brutto film sono tali in quanto ho esercitato il mio giudizio: accettarli per ciò che sono, senza interrogarci su quanto siano rispondenti alle nostre esigenze è tempo perso. Tanto sarebbe valso impegare il tempo a fare qualcosa di sicuramente gradito.
Io col piacere dell’apprendimento mi ci scontro ogni giorno: la ricerca scientifica (che intendo fare per mestiere) è studio costante, muoversi sulla frontiera a seguir la “virtute e canoscenza” di cui parlava Ulisse. Se non ci fosse questo continuo bisogno di sapere il perché e il come, l’uomo sarebbe rimasto alla stregua degli animali. D’altra parte se capire -riferito a tutti i possibili ambiti, non solo al mio- non ci regalasse quell’attimo di euforia, quell’impagabile orgasmo intellettivo e quasi un senso di potenza, nessuno lo farebbe. Nessuno si sacrificherebbe in questa effimera ricerca. Giocheremmo tutti ai videogiochi e ci ingozzeremmo di patatine. Non che farlo, tra uno studio e un altro, sia deleterio, eh!
Grande! E’ verissimo quello che dici e sono fermamente convinta, come dicevo poco sopra, che la fatica per il raggiungimento di un traguardo sia parte integrante del piacere dell’averlo raggiunto. E chi non ha provato quell’orgasmo intellettivo non può capire di cosa parli 😉
In fin dei conti mi pare che, sebbene in modo diverso, diciamo tutti la stessa cosa. Al di là della personale stima o meno per Baricco penso che la cosa essenziale sia che ha toccato un punto che, in qualche modo, ci riguarda tutti da vicino. La cultura, alla fine, è ciò che ci permette di arricchire il nostro animo stimolandoci a riflettere su qualcosa che, nella maggior parte dei casi, finiremmo per subire, se non avessimo un cervello pensate e la capacità di andare oltre l’apparenza di quello con cui entriamo in contatto.
cultura per me è tradizione,cioè quella cosa che riesce a sopravvivere al tempo,alla moda,ai capricci intellettuali.
Per questo i videogiochi sono esperimenti interessanti,ma non sono Delitto
e Castigo.Detto in soldoni.
Non mi piace nemmeno la moda di mischiare alto e basso,perchè mi smuove lo stomaco,come se fossi su una nave in balìa della tempesta
Quindi soggettivamente posso considerare certi prodotti,per il mio sollazzo,
culturali,ma oggettivamente dovrei anche essere onesto da riconoscere che non son tali
Uno che mi sta sulle palle terribilmente:Moretti,ha detto una cosa
vera:le parole sono importanti.
Oggi diciamo cultira ,filosofia,alla cazzo di cane,confondendo il nostro gusto personale,le nostre emozioni,il nostro vedere e sentire,con l’oggettività delle cose..L’opinione con il senso xcritico.Inoltre crdo esista anche la gerarchia.Perchè non dir che qualcuno ha mezzi superiori ad altri?Conosco un mio amico pittore eccelso,eppure mai mi sogneriei di paragonarlo a raffaello,ad esempio.
Ecco la confusione e il permessivismo estetico mi guastano assai
ciao!