La visita alla Galleria dell’Accademia è stata, per molti aspetti, una cocente delusione ma ha riservato anche delle gradite sorprese. La prima delusione la voglio affrontare subito perché è una di quelle cose che mi fa adirare enormemente. Si tratta del manifesto ingannevole della mostra di Lorenzo Bartolini nel quale è raffigurata chiaramente la statua marmorea della Fiducia in Dio. Ma della Fiducia in Dio non c’era traccia in mostra! Era esposto solamente il gesso preparatorio per la statua che, evidentemente, se n’è rimasta bel bella al Poldi Pezzoli di Milano, dove è conservata! Volevo protestare col povero custode per l’inganno perpetrato nei confronti dell’ignaro visitatore della mostra ma ho desistito pensando che lui, di certo, non ne era responsabile. Mi adiro, invece, con i curatori dell’esposizione perché questo tipo di pubblicità ingannevole è davvero disonesta. Per fortuna che ho già avuto occasione di vedere la statua al Museo Poldi Pezzoli, altrimenti sarebbe stato davvero frustrante aspettarsela e non trovarla!
La Galleria dell’Accademia
Il quartiere di San Giovanni
Non voglio fare una descrizione dettagliata né della Galleria né della mostra di Bartolini. Intanto perché mi ci vorrebbero pagine e pagine (di noia per voi che leggete e di fatica per me che scrivo) e poi perché preferisco porre l’accento sulle cose che mi hanno colpito e cercare di trasmettere anche a voi il motivo.
Innanzitutto un’accenno all’esposizione delle opere. In generale l’allestimento è ben curato tranne che per quanto riguarda la prima sala, quella della pittura fiorentina del Cinquecento in cui l’illuminazione è pessima e produce non pochi riflessi sui quadri. inoltre le opere sono poste su più altezze per tutte le pareti e quelle più in alto sono davvero poco visibili. Altro scandalo espositivo riguarda la raccolta delle icone russe (ricordate che avevamo detto che era una raccolta unica nel suo genere per entità?) che sono distribuite in teche di vetro… per le scale di accesso al primo piano! Come dire che uno le dovrebbe guardare passando perché non c’è lo spazio per fermarsi. Inoltre non sono accompagnate da didascalie né da cartellini ma solamente da un pannello esplicativo che riporta dei numeri d’inventario che non sono visibili sulle opere e, quindi, è impossibile capire a quali ci si riferisca. Anche questo è davvero uno scandalo soprattutto perché il visitatore impreparato non ha assolutamente la possibilità di accorgersi del valore e dell’importanza di queste tavole.
Ma ci tengo a sottolineare una cosa positiva riguardo all’esposizione, vale a dire la presenza di notizie in merito al restauro dei quadri esposti nella sala del David. Sono riportate sinteticamente sui cartellini accenni al lavoro di restauro eseguito e foto che testimoniano lo stato dell’opera durante il restauro stesso. Inoltre sono indicati anche i nomi dei restauratori! E questa è una cosa più unica per rara e degna di essere sottolineata dato che il lavoro di restauro avviene troppo spesso dietro le quinte, senza che venga quasi mai riconosciuto e neppure apprezzato come si dovrebbe. Peccato che questa cosa sia presente solo ed esclusivamente in questa sala e non in tutta la Galleria. Ma ci accontentiamo.
Ma arriviamo alle opere di cui mi preme parlare perché sono quelle che più mi colpiscono.
Il San Matteo di Michelangelo
1506, marmo
Il San Matteo è una scultura imponente che riesce a trasmettere all’osservatore una fisicità prepotente e che lo obbliga a confrontarsi con la sensazione di inferiorità provocata dalla visione. In questa scultura il non-finito michelangiolesco acquisisce, secondo me, il suo apice. È soprattutto la posa, con il ginocchio sinistro che emerge dal marmo e la spalla sinistra arretrata, ancora imprigionata nel blocco di pietra che danno questa sensazione. Ancora più che i Prigioni è il San Matteo che si fa portatore di un significato ben preciso. Sul non-finito michelangiolesco ci sarebbe molto da dire, soprattutto in relazione a quanto esso sia voluto dall’artista e, quindi, abbia un preciso intento espressivo, piuttosto che solamente un incidente di percorso che ha portato all’incompiutezza di molte sue opere scultoree (ma non succede così con la sua pittura, e questo dovrebbe far riflettere). Ma non è questo il luogo per approfondire questo concetto. Vorrei solo riportare uno dei sonetti di Michelangelo (la sua attività poetica procede di pari passo a quella artistica e, sebbene le sia stata riconosciuta una certa dignità solo di recente, è una componente imprescindibile per capire il Michelangelo uomo ed artista) che, secondo me, spiega bene cosa egli intenda per non-finito.
Se ’l mie rozzo martello i duri sassi
forma d’uman aspetto or questo or quello,
dal ministro che ’l guida, iscorge e tiello,
prendendo il moto, va con gli altrui passi.
Ma quel divin che in cielo alberga e stassi,
altri, e sé più, col propio andar fa bello;
e se nessun martel senza martello
si può far, da quel vivo ogni altro fassi.
E perché ’l colpo è di valor più pieno
quant’alza più se stesso alla fucina,
sopra ’l mie questo al ciel n’è gito a volo.
Onde a me non finito verrà meno,
s’or non gli dà la fabbrica divina
aiuto a farlo, c’al mondo era solo.
L’Annunciazione di Alessandro Allori
1603, olio su tela
Ammetto di non aver mai amato la pittura della Controriforma. La seconda metà del Cinquecento mi è sempre apparsa confusa e buia dal punto di vista artistico. Detto questo ho sempre sostenuto che se qualcosa non mi piace il motivo è che, fondamentalmente, non riesco a capirla fino in fondo. In effetti studiando certe correnti artistiche che ho sempre giudicate lontane dal mio gusto ho imparato ad apprezzarle e, col tempo, ad amarle. Ritengo che spesso sia l’ignoranza a tenerci lontani da cose (o anche persone, perché no?) molto diverse da noi.
Poi mi capitano le folgorazioni. Mi è successo nei confronti della pittura di Rubens che trovavo assolutamente ridondante ed eccessiva, totalmente lontana da me. Poi vidi la Leda col cigno alla Gemäldegalerie di Dresda e ne rimasi folgorata. Non so perché. Sono quelle cose che accadono senza una spiegazione logica. Probabilmente i tempi sono maturi perché tu possa innamorarti di un determinato quadro e basta. Da quel momento Rubens è salito prepotentemente nelle prime posizioni della mia personale classifica artistica e credo che adesso difficilmente potrà essere sradicato da chicchessia!
E quindi ho visto l’Allori alla Galleria dell’Accademia. Come molte altre volte prima di adesso. Ma stavolta è stato diverso perché quelle linee e quei colori mi hanno colpita e attratta in maniera irresistibile. Un buon quarto d’ora l’ho passato in contemplazione de L’Annunciazione (vi avverto, non venite mai in un museo con me perché potrei trascorrerci ore senza neppure accorgermene…).
Allori è allievo del Bronzino. E si vede. Benché in lui il Manierismo sia stemperato da nuove esigenze espressive derivate soprattutto dal clima austero della Controriforma i colori metallici ed il disegno definito hanno molto in comune con la pittura del suo maestro. Ma in questa tela la cosa che mi ha colpito maggiormente è il gesto della Madonna, con le braccia aperte a sottolineare quel “sia fatta la tua volontà” rivolto all’Angelo annunciante. E lo sguardo basso, timoroso, umile. L’insieme di questa figura ha una forza ed una dolcezza indicibili che per me sono strettamente associate alla figura di Maria e al suo ruolo all’interno del Vangelo. C’è tanta dolcezza in questo quadro e mi sono stupita di non essermene mai accorta prima d’ora. Tra l’altro nella Galleria dell’Accademia c’è una cospicua collezione di opere dell’Allori ed è molto interessante vederle ravvicinate e poterle confrontare tra loro.
La Musica Sacra di Luigi Mussini
1841, olio su tela
E qui sono costretta ad aprire un capitolo a parte, pur rendendomi conti di quanto mi sto dilungando con questo post (eh, lo so… abbiate pazienza…). Luigi Mussini è uno di quegli artisti ingiustamente sconosciuti ai più, come la maggior parte delle correnti del nostro Ottocento, escludendo poche illustri eccezioni. Mussini è uno dei maggiori rappresentanti del cosiddetto Purismo, corrente artistica che cominciò ad affermarsi negli anni 30 dell’Ottocento. Il principio ispiratore di questo movimento si inserisce nella scia di una sorta di ritorno all’antico, alle origini della pittura prima della decadenza delle arti e prima che questa fosse piegata alle necessità commerciali. Tale clima è comune a molti movimenti ottocenteschi in Italia ma anche nel resto dell’Europa. L’apice di questa concezione artistica si ha nella pittura preraffaellita che esalterà e diffonderà gli stilemi dell’arte del primo Quattrocento prima della rivoluzione pittorica operata da Raffaello (considerato già parte della decadenza dell’arte). Vi rimando a Wikipedia per ulteriori dettagli dato che la scheda è fatta abbastanza bene per una prima infarinatura sul movimento.
Dicevamo di Mussini. Ecco, semplicemente lo adoro. Diciamo che la mia tesi parlava anche di lui, pure se marginalmente. La Musica Sacra è l’opera più nota di Mussini e a ragione, secondo me, dato che è quella che esprime in maniera più completa il suo modo di concepire la pittura e il legame con i maestri antichi ai quali si ispira. C’è soprattutto il Perugino in questa tela. L’omaggio al maestro umbro è evidente nel volto della figura ma anche nella postura della figura stessa e nel perfetto inserimento all’interno dello sfondo architettonico (un semplice arco a sesto acuto in pietra serena). Il richiamo alla pittura quattrocentesca si ritrova anche nella religiosità semplice ed appassionata che traspare dal volto, nello sguardo rivolto al cielo e nell’essenzialità dell’ambiente circostante. Per me questo quadro è l’essenza stessa di uno spirito religioso puro e incontaminato così difficile da trovare oggi dove tutto diventa strumentale. Guardando quest’opera, invece, quello spirito si respira ancora e non può altro che fare bene 🙂
Cristo in Pietà di Giovanni da Milano
1365, tempera su tavola
Giovanni da Milano è uno di quei pittori trecenteschi che mi è sempre stato un po’ indifferente. Sì, lo so, ha sviluppato l’umanità della figura iniziata con Giotto tentando di dare risalto anche alla materia oltre che ai volumi ma vuoi mettere i Lorenzetti? Boh… cento volte meglio, per dire. Ma in questa pala dell’Accademia una cosa mi ha colpita particolarmente: l’assembramento delle teste nella parte alta del quadro, ognuna contornata dalla sua bella aureola dorata. A prima vista sembra quasi che il pittore abbia calcolato male lo spazio e abbia forzato i personaggi a rientrare in una composizione preordinata. Poi ti accorgi che questa scelta spaziale accentua il pathos della scena. Quei volti tutti insieme che si sfiorano, che si bagnano a vicenda di identiche lacrime partecipano del medesimo dolore. Te ne rendi conto bene. E te ne rendi conto proprio perché i volti sono costretti in questo spazio angusto e si confondono e, quasi, si fondono tra loro.
Concludo con una panoramica delle sale in cui sono raccolti e conservati gli strumenti musicali che, in effetti, sono la vera novità di questa mia visita perché le ho viste per la prima volta. La raccolta proviene dall’attiguo conservatorio Cherubini e comprende una serie di strumenti di diverso tipo e provenienza. Sono conservati anche un paio di pregevoli Stradivari ma la vera attrazione è il primo pianoforte verticale costruito da Domenico Del Mele nel 1739. La cosa curiosa è che si tratta, praticamente, di un pianoforte a coda ribaltato in verticale per motivi di spazio. Una soluzione curiosa ma anche, in un certo senso, geniale. Completano la raccolta alcune postazioni dove è possibile ascoltare su pc i suoni degli strumenti esposti. Un’idea molto carina, in effetti.
P.s. Questo post si candida sicuramente come il più noioso che ho mai pubblicato e quello dalla più lunga gestazione, dal momento che nelle revisions mi segnala come data di prima stesura il 22 gennaio 2012! Non male vero?