Ancora riflessioni suscitate dalla visione di una pellicola che ho recuperato grazie al cinema all’aperto. La visione è di qualche giorno fa ma, come sottolineo nella recensione, non mi era possibile scriverne a ridosso della visione stessa. Ci sono film che hanno bisogno di essere assimilati. Alcuni più a lungo. Altri meno. E, di solito, sono quei film che, in un modo o nell’altro, ti rimangono nel cuore. Su un film brutto o insignificante il giudizio è quasi immediato perché, quando lo vedi, c’è qualcosa che da subito ti infastidisce. E sai esattamente di cosa si tratta. Poi ci sono film come La donna che canta. Che ti passano sopra come un carro armato e ti svuotano. Per farti risvegliare arricchita e con uno sguardo nuovo sul mondo che ti circonda. Ecco, quelli sono i film che vorrei sempre vedere.

La donna che canta

[Incendies , 2009, durata 130′]   Regia di Denis Villeneuve
Con Lubna Azabal, Mélissa Désormeaux-Poulin, Maxim Gaudette, Rémy Girard, Abdelghafour Elaaziz, Allen Altman

Attenzione! Contiene spoiler.

E’ passato qualche giorno dalla visione di questo film senza che riuscissi a scriverne. Ho avuto bisogno di assimilare tante cose prima di poter esprimere un giudizio. E non sono sicura di riuscire a farlo in maniera compiuta neppure adesso che mi accingo a compilare questa recensione. Sembrerà fuori luogo ed un paragone azzardato ma, a me, questo film ha fatto pensare a I Ponti di Madison County. E non perché gli somigli in alcun modo né come tema né come narrazione ma perché in entrambe le pellicole ci troviamo di fronte alla presa di coscienza di due figli nei confronti della vita della propria madre (anche se nel caso di La donna che canta, in realtà, i figli sono tre). Ed è interessante notare come in entrambi i film sia la sorella quella che vuole andare più a fondo, quella che vuole scoprire la verità, che non accetta di rimanere all’oscuro. Il fratello, invece, tenta di rifiutare ciò che ritiene sgradevole. Preferisce continuare a mentire a se stesso piuttosto che decidere di fare i conti con un passato scomodo. In entrambi i film i maschi saranno trascinati dalle sorelle che, caparbie, si ostineranno a voler capire.

La donna che canta è, evidentemente, un capolavoro. Un film sull’odio che sconvolge ed annienta. E’ un lavoro di scavo nella realtà drammatica di un popolo che da secoli non sa cosa sia la pace. Uno scavo che lo spettatore compie di pari passo con i protagonisti, inconsapevole come loro degli eventi a cui sta assistendo.

Ma nei giorni successivi alla visione mi sorge un’altra riflessione che intacca la bellezza assoluta del film. Nessuno sembra preoccuparsi del fatto che la madre fosse, a tutti gli effetti, una fondamentalista e un’assassina. Né l’avvocato che continua a stimarla fino in fondo né, tanto meno, i figli. Tutta la rabbia ed il raccapriccio sono riservati alla figura del padre-fratello senza considerare che, alla fine, i due gemelli scoprono che la propria madre era coinvolta nella spirale d’odio e di violenza che accomuna tutto il suo popolo. E che i 15 anni passati in prigione erano dovuti ai delitti da lei compiuti in nome di una guerra santa che ancora adesso provoca centinai di morti e non, come viene da pensare all’inizio, causati da un errore o da un’ingiusta persecuzione. E a tutto questo non sembra pensare mai nessuno. Né i protagonisti né il pubblico in sala. E mi chiedo: si può provare disgusto verso un uomo cresciuto nell’odio e che quello stesso odio impara a perpetrarlo su chi è più debole di lui e, nello stesso momento, provare pietà verso una donna che con le sue azioni ha contribuito consapevolmente e caparbiamente a diffondere lo stesso odio? Forse una seconda visione mi permetterà di rispondere a questa domanda.